SPUNTI PER UNA “ SAGA “ FAMILIARE
Alla soddisfazione che si prova nel constatare il
sempre più ampio sviluppo degli studi storici nella nostra regione – per merito
di istituzioni di Stato, come l’Archivio di Campobasso,
ma anche attraverso l’operato di Enti volontaristici come l’Istituto Italiano
Castelli sezione Molise, o l’Associazione per lo studio delle fonti storiche
del Molise – si associa in molti di noi la curiosità, più che motivata, di
conoscere i tratti più semplici e quotidiani della vita di chi ci ha preceduto
in queste terre, di ricostruire, al di là dei più solenni ed ufficiali impegni
celebrativi di questo o quel personaggio, il tessuto, a volte anche umile, che
sottende alle origini, con l’intreccio delle famiglie e delle parentele, che fa
da sfondo culturale ed umano alle cosiddette <<aree interne>>,
troppo spesso dimenticate nelle storie <<ufficiali>>. La
connotazione geografica delle aree interne si proietta
infatti con tratti simili nella società che le ha abitate per millenni;
una società prevalentemente impermeabile alle influenze esterne ma comunque
dotata di una propria mobilità interna che consentiva a gruppi, famiglie,
singoli di emergere e scomparire nel giro di qualche generazione, di essere
espressi e riassorbiti dal magma indistinto di una popolazione che le cronache
ricordano per le caratteristiche quantitative, il numero dei
<<fuochi>> (focolari, quindi famiglie) o delle
<<anime>>.
Eppure, a
guardar bene, luci ed ombre non mancano nelle mille storie “ private “ di
queste società <<chiuse >> ed oscure, a tratti rischiarate e rese
singolarmente avvincenti dai preziosi documenti che ancora le nostre parrocchie
conservano, che gli archivi privati e pubblici gelosamente custodiscono e dai
gustosi racconti che a volte l’asciutta prosa dei vecchi ancora tramanda. E
appunto da un’incursione, cortesemente consentitami dal Parroco di Civitanova,
tra i registri dei battesimi e dei decessi e tra i fascicoli dello
<<Stato delle anime della Comune di Civita Nova>> diligentemente
redatti in più riprese a partire dal 1739 ed altrettanto scrupolosamente
conservati in ottime condizioni, che aveva lo scopo di
individuare con un percorso a ritroso le origini di una famiglia – dei
Cardarelli o Cardariello, come si dissero fino alla fine del Settecento – è
nato il testo di queste brevi note. Condite con il ricordo di frammenti della
tradizione orale, raccolti tra parenti ed affini, esse non vogliono
rappresentare altro che un modesto invito ad applicarsi, con cura ma con
semplicità, alla ricerca delle fonti storiche disponibili, per ricostruire con
maggior chiarezza il tessuto umano e sociale che fa da sfondo sia alla nostra
esistenza odierna, sia ai grandi eventi della nostra storia più o meno remota.
In questa ricerca del tempo perduto
– ma abbastanza facilmente ritrovabile – è così emerso un fatto singolare: sul
finire del Seicento vissero a Civitanova due fratelli, Antonio e Niccolò
Cardariello, gli unici nominati dai documenti del tempo. A loro è dunque
possibile riferire tutta la discendenza che oggi porta il cognome Cardarelli.
Sembra inoltre, da ricerche svolte molti anni fa dall’avv. Urbano Cardarelli,
mio nonno, che essi si fossero trasferiti a Civitanova
da S. Donato Valcomino, in provincia di Frosinone ( dove ancora il cognome
Cardarelli è molto diffuso ) per amministrare terreni di proprietà dell’Abbazia
di Montecassino nell’agro del nostro comune, dove vi era stato un fiorente
convento benedettino <<de jumento albo>>. Coincidente, pare, con i
ruderi attualmente visibili in contrada S. Brigida,
non lontano da terreni ancora posseduti dalla nostra famiglia.
Nel vecchio palazzo sito al n. 10
della <<strada Vallone>> abitava, nei
primi anni dell’Ottocento, un nucleo familiare composto da don Eustacchio
Cardarelli ( il cognome ha già subito la versione moderna ), sacerdote ed
arciprete di Chiauci; da suo fratello Fedele, coniugato con Pia Lalli ( nata
anch’ella nel 1774 ) con un unico figliuolo Urbano Maria, nato nel 1799 e
censito come “ studente “. Completavano il gruppo familiare
una anziana domestica, Rosalinda Di Tomaso ( nata nel 1744 ) e il di lei figlio
( nato nel 1784 ), anch’egli sacerdote.
In edifici vicini al n. 10 della strada Vallone troviamo ai primi dell’ottocento altri due
nuclei familiari, facenti rispettivamente capo a don Vincenzo Cardarelli,
sacerdote anche lui, nato nel 1755 ed ai fratelli di questi, Bellisario ( nato
nel 1750 e di professione
<<tavernaro>>) e Nicola, contadino, ( nato nel 1758 ). Tutti e tre erano figli del <<quondam>> Sabatino Cardarelli e
di Giovanna Fiorda. Non è quindi da
escludere, per la contiguità del domicilio, una parentela con il nucleo
familiare di don Eustacchio, facente capo a Benigno, che si potrebbe supporre
cugino di Sabatino. E’ da notare che fino a qualche decennio fa, di fronte alla
casa che è ancora dei Cardarelli discendenti dal primo urbano, era ancora attiva una piccola osteria denominata appunto
<<la taverna>>; potrebbe trattarsi proprio di quella gestita da
Bellisario. La diffusione della carriera ecclesiastica non deve stupire, in un
periodo in cui essa rappresentava uno degli accessi più facili alla istruzione e al prestigio.
Mentre dai figliuoli
del primo Antonio e dal fratello di Urbano, Anastasio, discendono con notevole
certezza tutta gli altri rami dei Cardarelli di Civitanova, dal piccolo nucleo
familiare facente capo ad Urbano, al figlio di lui Benigno, al nipote Fedele ed
al pronipote Urbano Maria ebbe origine un’altra discendenza, numerosa e foriera
per Civitanova di estesi ed intensi rapporti sociali interni ed esterni alla
comunità locale. E’ oggi difficile rievocare tutte le vicende, sia per la
scarsezza e l’incertezza di talune fonti, sia per l’ampia ramificazione delle
parentele, sia, infine, per il rilievo che, sopra tutti gli altri membri della
famiglia acquistò, nell’immaginario popolare, la figura autorevole e benevola
ad un tempo di Antonio Maria, (il grande Clinico Prof.
Antonio Cardarelli al cui nome sono intitolati gli ospedali di Napoli e di
Campobasso. n.d.r.) figlio quintogenito di Urbano
Maria e Clementina Lemme, nato il 3 marzo 1831 e morto l’8 gennaio 1927.
Ebbene, il professore
Antonio non fu, come a volte si sente ripetere, il frutto intellettuale del
tutto estemporaneo di una cultura contadina; tutt’altro. Nei primi decenni
dell’Ottocento Civitanova era un comune relativamente popoloso (circa 2500
abitanti, fino al massimo storico di circa 3500, verificatosi verso il 1860),
articolato in ceti, mestieri e professioni, nel quale la presenza dei
contadini, seppur maggioritaria, non escludeva i professionisti (definiti negli
<<stati delle anime>>: <<impiegati ad arti liberali, …Medici,
Dottori e Notari>>) che da otto
nel 1812 salgono a ventiquattro nel 1840, né una nutrita rappresentanza del
clero (i religiosi, tra secolari e regolari, erano sedici nel 1812 e divennero
otto, più due chierici, nel 1840). Gli artigiani, o <<addetti alle arti
meccaniche>> ossia
<<Ferrari, Scarpai, Falignami, Cardalani, Sartori, Barbieri e
Catari>>, erano cinquanta nel 1812 e tentasei nel ’40.
Un contesto,
come si vede, abbastanza variegato, dotato di molte di quelle componenti
economiche-produttive con le quali si suole oggi definire la società urbana,
ivi compresa una certa mobilità sociale verso il terziario e a scapito della componente
sacrale. In altri termini, Civitanova era allora assai più
<<città>> di oggi, malgrado la diffusione
di abitudini e costumi che definiamo urbani nella popolazione attuale e l’ormai
generalizzata escalation sociale ed economica dei suoi abitanti.
E questo
spiega anche, in parte, l’emergere di gruppi sociali e di figure individuali
che abbastanza celermente e senza troppe difficoltà raggiunsero, fuori
dell’ambiente d’origine, posizioni di netto prestigio intellettuale, sociale e
finanziario. Posizioni cui in realtà l’ambiente d’origine li aveva già
predestinati con la ricchezza e la varietà della sua cultura, intesa non nel
senso di istruzione ma di bagaglio di usi, costumi,
credenze e pratiche materiali legate non soltanto al mondo contadino. E vi sarebbe
poi da riflettere anche sul progressivo impoverimento della stessa componente della cultura contadina, un tempo assai più
vivace e densa di valori, in quanto si giovava della contiguità e della familiarità con le altri
componenti culturali – quella dei <<possidenti>>, dei
professionisti, degli artigiani – spesso compresenti nello stesso gruppo
familiare e nello stesso individuo, impegnato par-time in più d’un mestiere. Un
coacervo, dunque, di fermenti sociali su cui proiettava la sua luce unificante
la cultura religiosa, con i suoi <<valori>> acquisiti e ricchi di
consenso.
Il contesto
socio-culturale da un lato; ma dall’altro quello familiare. Antonio Maria era
il quinto dei figlioli nati dalla unione feconda di
Urbano Maria – l’unico figlio di Fedele e Pia Lalli – e di Clementina Lemme,
nata nel 1805 a Belmonte del Sannio. Urbano Maria aveva intrapreso la carriera
di studente, concludendola nell’Università degli Studi
di Napoli, con la laurea in Medicina, conseguita l’8 marzo 1823. Nella
pergamena di laurea, tramandataci in due esemplari, l’origine del neo laureato
è indicata <<ex oppido Civitanovae>>; il nostro comune era dunque conosciuto come città fortificata, ossia “terra”
cinta da mura che la separavano nettamente dalla circostante campagna e ne
proteggevano la popolazione dai briganti, che in quel tempo prendevano spesso
di mira i greggi transumanti lungo il “tratturo” Castel di Sangro-Lucera, per
un buon tratto incluso nel territorio comunale di Civitanova.
Il neo-dottore si dedicò con passione
all’assistenza dei suoi compaesani (Antonio ebbe dunque anzitutto nel padre un
esempio da imitare), nel corso della quale non tralasciò di dedicarsi ancora
agli studi confortandoli con il riscontro di una intensa
attività pratica di medico curante. La sua fama si diffuse presto in tutto il Molise; ancora oggi egli è ricordato, oltre che
come padre del più celebre Antonio, anche come l’indagatore di una malattia,
particolarmente diffusa tra i contadini, che prese ufficialmente il nome di
Morbo di Riga o “afta cachettica del dottor Urbano Cardarelli”. Di carattere
pacifico, come testimoniano, oltre che i ricordi familiari, anche la bonaria
fisionomia tramandataci dal pittore ritrattista civitanovese Pasquale de Curtis
(nato il 31 maggio 1841 da Cherubino e Maria Giuseppa Cardarelli), ebbe altresì
la costanza, frequente nei medici dell’età positivista, di sperimentare
sull’ultimo dei nati – Alessandro Raffaele Eustacchio
Fedele, conosciuto in realtà soltanto con l’ultimo dei quattro nomi impostigli
al battesimo – la dottrina dell’allevamento <<secondo natura>>,
consistente nel lasciar crescere il fanciullo coperto da una semplice
camiciola, estate e inverno, al fine di irrobustire la costituzione fisica.
Teoria cui talvolta donna Clementina guardava con qualche perplessità!
Clementina Lemme era figliuola di Gennaro e Perfetta Paletti e proveniva da una
antica famiglia di Agnone (de Lemmis) trasferitasi a Belmonte nel corso del
secolo XVIII° e che nel 1810 acquistò dai baroni de Lutio il feudo di
Castelguidone. Tra i suoi parenti si ricorda un capitano di vascello che si era guadagnato la gratitudine del re Ferdinando II° per aver
con successo accompagnato con la propria nave la principessa reale Maria Teresa
di Borbone sposa in Brasile all’imperatore don Pedro II°. Clementina lasciò
molto giovane la nativa Belmonte per trasferirsi a Civitanova dove cominciò
subito ad interessarsi con sagacia dell’amministrazione familiare, subentrando
alla suocera – l’autorevole signora Pia – e affrontando, pare, una situazione
finanziaria difficile all’inizio. Sembra, infatti, che la famiglia avesse sostenuto oneri notevoli per l’acquisto di beni
dapprima incamerati e poi rivenduti dallo Stato in seguito alla eversione della
feudalità. Fra l’altro, frutto del suo personale interessamento
alla conduzione dei fondi rustici fu l’introduzione di una particolare specie
di pomodori, i cui semi erano stati importati dal Brasile. Fu altresì
madre assai feconda (undici figlioli viventi) ed
educatrice severa, tanto da meritare rispetto da tutti i figli anche in età
matura. La sua esemplare parsimonia, che le consentì di risollevare ben presto
le sorti di una famiglia oltre tutto numerosa è
rimasta proverbiale tra i suoi discendenti! Morì assai compianta a
settantaquattro anni, il 21 luglio 1879 e fu sepolta nel cimitero di Civitanova
<<dopo solenni funerali, con l’intervento di altri
ventitre sacerdoti circonvicini>>, come annotava nell’atto di morte
l’Arciprete Emilio Maria Battista.
Insieme con il marito, donna
Clementina trasmise ai figli la dote più grande, l’intelligenza. Il primogenito
dei maschi fu Antonio; lo seguivano Giuseppe Maria, nato il 25 marzo 1835, e
Fedele, nato il 3 aprile 1845. I primi due, dopo gli studi presso il Collegio
Fazioli di Frosolone (fondato nel 1753), imboccarono entrambi la professione
paterna. Fedele, invece, attratto dalle scienze tecniche, si laureò dapprima a
Napoli in Ingegneria presso la Scuola di Applicazione
di Ponti e Strade; poi si diplomò a Londra in Elettronica, disciplina ancora
agli inizi del suo sviluppo in Italia. Da questa esperienza,
che gli permise, fra l’altro, di servirsi dell’inglese come di una seconda
madre-lingua, egli trasse motivo per collocarsi tra i primi esperti di
elettronica in Italia, venendo ben presto in contatto con un suo illustre
coetaneo ed amico, Guglielmo Marconi, con il quale partecipò ai famosi
esperimenti nell’isola di Wight. Gli studi tecnici non gli impedirono però di
coltivare, con il successo che giustamente arride ad una mente enciclopedica,
anche le scienze umanistiche; di questo aspetto non
secondario della sua personalità ci restano alcune poesie pubblicate in latino.
Fedele sposò Adele Simeoni,
appartenente ad una distinta famiglia di Sulmona, che gli dette quattro
figlioli, l’ultimo dei quali gode ancora ottima salute, vive a Roma e visita di
tanto in tanto Civitanova: Clementina Cardarelli, vedova del Comandante
Vertunni. Degli altri figlioli di Fedele ricordiamo
Dinamo e Aldo, da poco scomparsi entrambi ultraottuagenari: il primo, così
chiamato perché il suo padrino di battesimo fu Antonio Pacinotti, l’inventore
della dinamo, fu fine poeta e saggista; l’altro fu medico ospedaliero dal chiaro
intuito e colto dilettante di musica. Suonava, infatti, il violino (lo
strumento con il quale si dilettava anche suo nonno Urbano) e si accompagnava
spesso alla moglie, Adele Ferraresi, pianista.
Giuseppe Maria, cui è da ricondurre quella parte della famiglia Cardarelli che
frequentava regolarmente Civitanova, fu medico di bravura almeno pari a quella
del fratello Antonio, il quale ebbe più volte a lodarne l’acume e la scienza,
chiamandolo al capezzale dei più amati familiari. Seguì la vocazione del padre
dedicandosi alla assistenza dei suoi compaesani e
coltivando anche altri interessi, fra cui la musica. Era,
infatti, appassionato cultore dell’opera lirica e della musica strumentale,
frequentava abitualmente il Teatro di San Carlo, sobbarcandosi ogni
volta ad un viaggio non agevole. Si era fatto, tra l’altro, costruire un
pianoforte meccanico, per poter ascoltare anche nella sua casa di Civitanova le
melodie preferite. Ancora si conservano i cartoni forati che s’inserivano in
quello strumento, come dischi in un moderno lettore. Don Peppino, come
Familiarmente ancora ricordano a Civitanova, sposò in prime nozze Maria Desiderata
Di Palma, di antica famiglia civitanovese, figliuola
del medico Nicola; da questa, prematuramente scomparsa nel 1866 a ventun’anni
ed un mese, ebbe tre figliuoli: Adele, Giovanna ed Urbano, che seguì
brillantemente la professione forense (1866-1952) risolvendo tra l’altro una
secolare vertenza tra i Comuni di Sessano e di Civitanova, a completo vantaggio
di quest’ultimo. Urbano restaurò il Palazzo Cardarelli nel 1925 ed i suoi
numerosi figliuoli – Giuseppe, Antonio, Francesco,
Maria, Roberto, Adele, Natalia, Vincenzo ed Eleonora – continuano con la loro
discendenza ad aver cura delle memorie familiari.
Delle figliuole
di Giuseppe, Adele sposò il prof. Luigi Campanelli, di Capracotta, autore fra
l’altro di una pregevole memoria storica sul suo paese di origine (<<Il
territorio di Capracotta>> Fermentino 1931) e Giovanna sposò il cugino,
lo scienziato Giuseppe Pianese di Civitanova (1861-1933), Accademico d’Italia e
Direttore dell’Istituto di Anatomia Patologica dell’Università di Napoli, padre
di Corrado, Lamberto, Francesco e Ines (maritata Di Salvo a Pietrabbondante).
Seguire ancora l’ampia ramificazione
delle parentele diventa quasi impossibile; va però ricordato a chi voglia
intraprendere una ulteriore indagine genealogica, che
Urbano e Clementina ebbero ben otto figliuole. Maria Maddalena (nata il 29
luglio 1825) che sposò Francesco Pianese, agrimensore, Maria Angelica (nata il
16 luglio 1826), sposa a De Vincentiis di Pesche; Maria Rosa (nata il 14
novembre 1827), maestra, sposa del Maria Cesare Valerio e madre di Federico,
Salvatore e Santo Maria Letizia (nata il 29 settembre 1829, morta ad oltre
cento anni) sposa a Carnevale di Isernia; Maria Amalia
(nata il 31 agosto 1833) sposa a Tosti di Pietracupa; Maria Teresa (nata il 18
giugno 1837) suora benedettina; Maria Fedele Concetta (nata il 7 dicembre 1839,
morta bambina di colera); ed infine Beatrice Maria Fedele (nata il 31 marzo
1842).
Per ognuna di loro sarebbe
interessante ricostruire la discendenza, fino agli attuali esponenti, molti dei
quali operano ancora nel Molise o hanno raggiunto mete
lontane, come lo storico Amedeo Tosti. Un
lavoro lungo, da affrontare con pazienza, per restituire una cornice
familiare di ampio spessore a quella figura della
genialità estrosa ed imprevedibile che fu <<don Antonio>> del
quale, quand’era bambino soleva dire la madre: << se Antonio cade nel
fiume, non lo cercate alla foce, ma alla sorgente.
U.C.